martedì 17 settembre 2013

#19 Contaminazioni: Seamus Heaney: il poeta che unisce intenzione, intuizione e casualità


Séamus Heaney (Castledawson, 13 aprile 1939 – Dublino, 30 agosto 2013) è stato un poeta irlandese, Premio Nobel per la Letteratura nel 1995, massimo rappresentante contemporaneo del rinascimento poetico irlandese. Seamus parlava con tutti guardandoli negli occhi: nelle conferenze universitarie e nei pub; di cose sacre e quotidiane. 




Recentemente è tornato alla ribalta per la dipartita, ma va bene anche il lutto: esprime la memoria, perché è un fatto e un rito ancestrale che è antecedente alle religioni attuali. Lui è un esempio di cura, studio, perseveranza e certamente non solo pigra intuizione e improvvisazione. Ha vissuto in prima persona il connubio di teoria e prassi, perché le attività del poetare implicano immediatamente le nozioni di produrre, fare, fabbricare, progettare, toccare terra.

Vangando - Digging

Quatta quatta con il colpo in canna
Fra medio e pollice sta la penna.

(Between my finger and my thumb
The squat pen rests; snug as a gun.)

Sotto la finestra un raspo netto all'internarsi
Della vanga nel terreno ghiaioso:
È mio padre che dissoda. Guardo in basso,

Finché sotto sforzo, a groppa curva
Sulle aiuole, torna venti anni indietro
Piegandosi a tempo per i solchi
Di patate che vangava.

A posto sul vangile lo scarpone,
Saldo fulcro del manico il ginocchio,
Cavava gambi, ficcava a fondo la lucente lama
Per spargere patate nuove che noi raccattavamo
Adorandone fresca la durezza nella mano.

Per Dio, il vecchio ci sapeva fare
Con la vanga. Come il suo vecchio.

Mio nonno in una giornata tagliava più torba
Di chiunque altro nella torbiera di Toner.
Una volta gli portai il latte in una bottiglia
Sciattamente turata con la carta.
Si raddrizzò per bere e subito riprese

Con cura a fare tacche e fette, spalandosi le zolle
Dietro le spalle, sempre più a fondo
A cercare quella buona. Scavando.

Il freddo afrore di terriccio di patate, risucchio e stacco
Da torba in guazzo, secco taglio della lama
Nelle radici vive, mi si risvegliano in testa.
Ma non ho vanga per seguire uomini come loro.

Fra medio e pollice
Quatta quatta sta la penna.
Sarà la mia vanga.

 (Between my finger and my thumb
The squat pen rests.
l'll dig with it.)

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Per Seamus la scrittura poetica non è confinata all'ottica del singolo e scaturisce dalla matrice popolare fatta anche di tonalità musicali desunte dalle canzoni folk ed è come se ricevesse un mandato dalla comunità di origine e di appartenenza, cercando nel contempo un contatto   con la letteratura europea. La memoria tratta dalla tradizione orale è la fonte che permette al poeta di cogliere la totalità del reale, attraverso oggetti dell’infanzia e del lavoro rurale. Il poeta coglie il senso del “noi” quando dichiara nella prassi un impegno etico, in particolar modo degli irlandesi.
 
Seamus sente la questione nordirlandese tra i propri conoscenti e famigliari specie negli anni settanta e scrisse anche su Bobby Sands (Robert Gerard Sands - Belfast, 9 marzo 1954 – Long Kesh, 5 maggio 1981, è stato un attivista e politico nordirlandese, volontario della Provisional Irish Republican Army. Eletto membro del parlamento britannico mentre era detenuto nel carcere di Maze, a Long Kesh, ivi morì il 5 maggio 1981 a seguito di uno sciopero della fame condotto ad oltranza come forma di protesta contro il regime carcerario cui erano sottoposti i detenuti repubblicani), ma seppe distinguere il ruolo del politico da quello dell’attivista e ancor più dal poeta, infatti lasciò l’Irlanda del Nord nel 1972 e si stabilì a Wicklow, nella Repubblica d'Irlanda.




 In questa intervista Seamus ( per ascoltarla Premi QUI ) parla della sua storia di poeta e di come lui si sentisse tale dopo aver pubblicato tre libri, non prima. E in particolare di come la  poesia debba trovare la sua dimensione tra questi due opposti: il porsi costantemente la domanda “qual è il compito della poesia?” e al tempo stesso esprimere la propria condizione umana - privata.  La questione irlandese era in lui trasfigurata nella condizione di ogni popolo. Infine, proprio perché la memoria si trae dalla propria terra, si intuiscono singoli tratti di una visione globale della realtà avendo a mente l’intenzione di condividerlo con la propria comunità senza seguire a priori regole e prescrizioni formali e oppressive.

Lui è il poeta che con la parola e il suono espone la relazione originaria tra l’io e il suo stare nel luogo di tutti i popoli.



lunedì 9 settembre 2013

#18 Contaminazioni: Bulat Šalvovič Okudžava: il poeta-cantore dell’orrore e della compassione



Bulat Šalvovič Okudžava  (Mosca, 9 maggio 1924 – Parigi, 12 giugno 1997) è stato un cantautore e poeta russo di origini georgiane, esponente del genere musicale russo chiamato “Canzone d'autore”. Ha composto oltre duecento canzoni ed è stato pluripremiato per la sua poetica, impostata sul genere del canzoniere, poi ripresa da altri cantautori come il francese Georges Brassens. Fu conosciuto come poeta e bardo (cantautore) dopo gli anni cinquanta e considerato un pericolo per le sue poesie e canzoni: famoso all’estero e con l’impossibilità di pubblicare in patria. Si narra che Breznev, avesse espresso il desiderio della sua morte, consapevole però di aumentare ancor più la sua popolarità diffusa tra i russi che cantavano le sue canzoni per strada, nelle locande e nei bar, in particolare nelle fredde sere dell’inverno russo. Un poeta armato di chitarra e dotato d’ironia. Suo padre, attivista del Pcus, rivoluzionario della prima ora, cadrà vittima di una delle tante purghe: fucilato negli anni ’30. Sua madre, militante anch’essa, berrà l’acqua congelata del Gulag per 19 anni. Altri nove fra i suoi parenti furono fucilati e poi tutti riconosciuti innocenti. Bulat, appena diciassettenne, correrà ad arruolarsi volontario per difendere il suolo patrio dalla minaccia nazista e sarà più volte ferito. 







E aprirà gli occhi sulla guerra come alleata della superbia e dell’avidità e canterà della sofferenza esprimendo la compassione. 

GUERRA VIGLIACCA

Ah, guerra che hai fatto vigliacca!
I nostri cortili sono divenuti silenziosi.
I nostri bambini alzavano la testa,
diventavano grandi prima del tempo.
Si facevano appena vedere sulla via
e partivano: soldati, soldati...
Arrivederci, ragazzi! Ragazzi,
cercate di tornare indietro! (...)
Ah guerra che hai fatto vigliacca!
Al posto di nozze – distacchi e fumo.
Le nostre ragazze hanno donato
gli abiti bianchi alle sorelline. (...)

Il ritmo delle poesie ha una radice comune con le canzoni del bardo: parte dallo stomaco, attingendo alla tradizione dei canti, lenti prima e con picchi successivi in seguito, propri dei battellieri del Volga e delle nenie e dai racconti delle gesta degli eroi, degli amanti e della malattia, e quindi della vecchiaia e della morte. Bulat non offre teoremi e spiegazioni: esprime negli atti quotidiani l’orrore della guerra.

<<Non credere alla guerra, ragazzo,
non crederci, la guerra è triste,
è molto triste ragazzo,
la guerra è stretta come le scarpe

I tuoi bravi cavalli
non ci potranno far nulla,
tu sei tutto sul palmo della mano
tutto i fucili ti puntano.>>

/-/

E Bulat lo esprime con una tenera ironia che fa sorridere commossi. Il poeta confessa durante un concerto: «Quand’ho iniziato conoscevo tre accordi di chitarra, ma ora, dopo trentacinque anni di lavoro son migliorato... ne conosco cinque!»






Come cantare l’orrore e il terribile con dolcezza e compassione: 

Concerto a Parigi, 1995. Premi QUI



CANZONE DELLA FANTERIA

Scusate la fanteria,
se talvolta è così stolta:
sempre partiamo
quando sulla terra scoppia la primavera.
E con passo incerto
sulla scala che vacilla salvezza non c’è.
Solo salici bianchi
come bianche sorelle ti guardano andare

Non credete al tempo,
quando riversa piogge protratte.
Non credete alla fanteria,
quando canta balde canzoni.
Non credete, non credete,
quando negli orti gridano gli usignoli.

La vita e la morte
non hanno ancora saldato i conti.

A noi il tempo ha insegnato:
vivi come il bivacco, aperta la porta.
Compagno uomo,
è pur seducente la sorte tua:
tu sei sempre in marcia,
e solo una cosa ti strappa dal sonno.

Perché noi partiamo
quando sulla terra scoppia la primavera?

 /-/

Era scomodo e temuto Bulat perché ascoltato da chi non leggeva e cantato da chi aveva lo sguardo basso, rivolto alla terra che è il vero motore di ogni ribellione e rivolta del popolo russo.


IN GUERRA CONTRO UN PAESE STRANIERO


In guerra contro un paese straniero il re partiva.
Un gran sacco di gallette la regina gli preparò,
il vecchio mantello con gran cura gli rammendò,
tre pacchetti di sigarette e anche il sale gli fornì.

E le sue mani sul petto del re andò a posare
e gli disse, carezzandolo con sguardo raggiante:
“Suonagliele bene, altrimenti passerai per pacifista
e di far bottino di buoni panforti non dimenticare”

E il re vide che l’esercito stava in mezzo al cortile:
cinque soldati tristi, cinque allegri, e un caporale.
Disse il re: “ Non ci fa paura la stampa, né il temporale.
torneremo vittoriosi dopo aver sconfitto il nemico vile!”

Ma presto finì l’esultanza dei discorsi trionfali.
In guerra il re cambiò l’assetto delle truppe:
i soldati allegri senza indugio intendenti nominò
e i tristi, soldati li lasciò: “ Così non sarà male!”

Pensate un po’: sopravvennero poi i giorni vittoriosi.
Dei soldati tristi dalla guerra nessuno tornò.
Il caporale di dubbia morale una prigioniera sposò,
ma catturarono un gran sacco di panforti saporosi

Suonate, orchestre; echeggiate, canzoni e risate!
A mestizia effimera non ci si deve abbandonare.
Non aveva senso per i soldati tristi in vita restare
e poi non bastavano per tutti i panpepati.


/-/

E non poteva essere imprigionato o ucciso, perché esprimendo la compassione di un popolo per i suoi figli, la condizione di martire avrebbe amplificato il suo messaggio ancora oggi vivo e attuale.


Ricordo che il mio libro di poesie con immagini "Sogni sospesi" lo puoi trovare  QUI